Il reato di diffamazione a mezzo stampa: aspetti civili e penali

10 Giugno 2018 diritto civile diritto penale 0

Il reato di diffamazione, previsto dall’art. 595 c.p. punisce colui che, al di fuori dei fatti previsti dal reato d’ingiuria, “comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione“. Tale delitto è aggravato quando viene commesso con la stampa, la pubblicità o con l’atto pubblico.

Per quanto attiene alla diffamazione a mezzo stampa, iniziamo col dire che, secondo un orientamento consolidato in giurisprudenza, la natura diffamatoria di un articolo non deve essere apprezzata sulla base di una lettura unitaria delle singole espressioni, ma con riferimento all’intero contesto della comunicazione, comprensiva dei titoli, dei sottotitoli e di tutti gli elementi che “rendono esplicito, nell’immediatezza della rappresentazione e della percezione visiva, il significato di un articolo e quindi idonei, di per sé, a suggestionare i lettori più frettolosi” (Cass. 20608/2011, conf. Cass. 25167/2008 e Cass. 9746/2000).
Il titolo, in particolare, è astrattamente idoneo, in ragione della sua perentorietà, ad impressionare e fuorviare il lettore, ingenerando giudizi lesivi dell’altrui reputazione (sul punto cfr. Cass. 18769/2013).
Tali criteri possono essere utilizzati sia per apprezzare la gravità dell’offesa all’altrui reputazione, quanto ai fini della liquidazione del danno, a prescindere dai risvolti penali della vicenda, dovendosi escludere che la pronuncia spetti al solo giudice penale (cfr. Cass. Sez. III Civ. n. 29640/2017).

Il ricorso diretto alla giustizia civile, infatti, è l’opzione che oggi prevale nelle controversie per diffamazione, il che è dovuto anche al fatto al dilatarsi delle tempistiche per agire in giudizio. Mentre, infatti, in sede penale il termine per presentare la querela per diffamazione è di 90 giorni dalla pubblicazione della notizia (non trattandosi di reato procedibile d’ufficio), in sede civile è sufficiente che non sia intervenuta la prescrizione del diritto al risarcimento da fatto illecito (art. 2043 c.c.).
La disciplina della prescrizione di tale illecito è contenuta nell’art. 2947 c.c. il quale prevede che: “il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato” e, “in ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile“.

Ma non è solo un fatto di tempo: per puntare al risarcimento in sede civile (previsto ex art. 12 l. 47/1948), infatti, non è neppure necessario l’accertamento della natura dolosa dello scritto diffamatorio (cosa che occorre fare, invece, in sede penale). Questo perché sembra essere ormai superato l’orientamento giurisprudenziale che riteneva imprescindibile, per il giudice civile, l’accertamento della diffamazione dal punto di vista del dolo, rendendo così sufficiente, ai fini del risarcimento del danno, la sola componente colposa.

Non solo. La Cassazione ha anche evidenziato che è possibile disporre la riparazione pecuniaria nel giudizio civile per il risarcimento del danno, in quanto la riparazione “integra un’ipotesi eccezionale di pena pecuniaria prevista dalla legge, che, come tale può aggiungersi al risarcimento del danno autonomamente liquidato a favore del danneggiato” (Cass. 14761/2017).

Insomma, secondo la giurisprudenza, ad oggi risulta essere molto più probabile per il diffamato vedere accolte le proprie richieste di ristoro del pregiudizio subito in sede civile e senza dover necessariamente ricorrere alla giustizia penale.

 

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